di Salvo Barbagallo
Tra allarmi di nuovi attentati e blitz a caccia di jihadisti: così le giornate dopo il terribile 13 novembre di Parigi, a quasi una settimana dalle carneficine. La gente comune cerca di riprendersi la propria vita, ma è consapevole che nulla sarà come prima. Meno timori e una “normalità” di routine nelle aree geografiche non toccate direttamente dalla ferocia del terrore che, volente o nolente, porta l’etichetta “made in Islam”. Almeno fino ad oggi, come avviene in Italia.
Da anni si conosce il terrorismo jihadista, da anni si conosce la ferocia dei militanti il cosiddetto Califfato nero, da lungo tempo Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia combattono a vario livello l’incalzare delle milizie estremiste e fanatiche. Pur tuttavia nonostante il complesso lavoro delle intelligence è difficile scoprire quando i “boia” intendono colpire le loro vittime. Tutto d’un fiato: si parla di complicità, si parla della jihad come di una organizzazione criminale che riesce a sfuggire a qualsiasi controllo, si è costretti ad ammettere che “siamo in guerra”, che il terrorista ha spesso un volto “pulito” e che potrebbe essere il nostro vicino di casa, si analizzano minuziosamente i comportamenti di coloro che abbandonano la loro patria occidentale per andare a ingrossare le fila di quell’esercito di assassini che si muove da un punto all’altro del territorio dove opera a bordo di automezzi occidentali usando armi che dal mondo occidentale vengono prodotte, si avanzano denunce sui finanziamenti occulti che alimentano i massacri provenienti da Paesi che ufficialmente lottano l’Isis, in pratica si ha conoscenza di tutto, o quasi, che riguarda nascita e sviluppo del terrore che non bisogna definire “islamico” nel timore di offendere intere popolazioni che con il terrorismo nulla hanno a che vedere.
Ambiguità e compromessi hanno caratterizzato (e caratterizzano ancora) le azioni di governi alleati fra loro (e no) che subiscono violenze e pressioni non-stop, fino a dire, dopo i tragici attentati a Parigi ,“dobbiamo essere uniti come contro Hitler”. Ma questo fantomatico Califfato nero non è il Terzo Reich, non è uno Stato, anche se il Califfo, nella sua persona, potrebbe essere paragonato al dittatore nazista quanto a ferocia e crudeltà. Tutti (più o meno) determinati alla lotta all’Isis, ma poi le parole e gli impegni sembrano sfumare a fronte di contrasti che insorgono all’ultimo momento e c’è chi si nasconde dietro pretestuose “moderazioni”.
Guardiamo all’Italia: in questa drammatica circostanza che (come rilevato) non tocca direttamente il nostro Paese, pronunciare la parola “guerra” è un sacrilegio, chi sostiene “siamo in guerra” viene guardato con sospetto, chi si azzarda in discorsi chiari –quelli che descrivono le cose per quelle che sono– vengono emarginati, se non addirittura “denunciati”, e non solo metaforicamente. Una situazione contorta che consente a protagonisti di governo di muoversi nel grigio, di giocarsi a tempo debito una carta di riserva per giustificare la mancanza di una netta (e inequivocabile) presa di posizione.
Si conosce tutto (o quasi) del Califfato jihadista. Come ha evidenziato Guido Olimpio ieri (18 novembre) in un suo reportage “fonti irachene e statunitensi hanno fornito diverse valutazioni su quanto abbia nei forzieri Abu Bakr al Baghdadi (il “Califfo, n.d.r.). Prima si è parlato di 2 miliardi di dollari, poi di un miliardo di dollari (…) Vladimir Putin ha affermato che l’Isis riceve fondi da 40 Paesi, alcuni dei quali sono membri del G20…”. E Il Fatto Quotidiano del giorno prima (17 novembre) a chiare lettere riporta: “il rapporto USA: Kuwait centro di finanziamento“. E noi gli stiamo vendendo i caccia. Li stiamo armando noi. Nei prossimi giorni il nostro governo firmerà l’intesa per la fornitura di 28 Eurofighter al paese arabo. Verso il Qatar, indicato come principale sostenitore economico del Califfato, abbiamo esportato tra il 2012 e il 2014 armi per 146 milioni…”. Ed è sempre Il Fatto Quotidiano che indica in “375 milioni di euro le esportazioni di armi italiane in Arabia Saudita…” e (indicando fonti USA) “40 milioni di dollari in due anni i finanziamenti all’Isis da Arabia Saudita, Kuwai e Qatar…” I rapporti che l’Italia ha con il mondo arabo possono spiegare le “prudenze”, l’invito alla “moderazione”, e il “divieto silenzioso” di pronunciare la parola “guerra” del premier Matteo Renzi, reduce di una recente visita a Dubai?
“Gli affari sono affari”, erano (o sono ancora) i termini in cui si esprimeva la mafia americana quando si trovava a prendere decisioni mortali, anche quando a pagare con il sangue erano familiari stretti.
Il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi non è uno Stato ma un “Cartello” di criminali nel quale convergono alti interessi di varia natura: a nostro avviso è questa la ragione principale per la quale sia il mondo arabo (ovviamente in alcune sue sfaccettature), che il mondo occidentale (ovviamente in alcune sue sfaccettature) hanno consentito lo sviluppo del “Cartello”. Il taglio delle teste di ostaggi o di oppositori, le stragi, il terrore non-stop sono considerati (evidentemente…) “danni collaterali” all’interno di una strategia probabilmente mirata a una destabilizzazione globale e perenne.